U dialettu Palermitanu!, Miiinkiaa Difficileee è!!!

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Billie Joe Armstrong93
view post Posted on 23/8/2009, 17:46




Il dialetto palermitano è molto difficile :??: ma con un po d' impegno si capisce e si impara allora prima lezione facile facile cmq ecco un po di cose ( un po diciamo cosi! !)



INTRODUZIONE
Per spiegare la pronuncia del siciliano userò un metodo poco ortodosso: partirò dalle lettere per descriverne i suoi associati. Sebbene non sia il metodo migliore, è probabilmente uno dei più semplici da realizzare e capire, soprattutto perché si può fare a meno dell'uso dell'alfabeto fonetico IPA. Per descrivere i suoni diversi dall'italiano userò delle analogie e inserirò dei file audio che potrete ascoltare.
L'alfabeto da usare è un altro problema grave: ho deciso di usare l'alfabeto italiano senza modifiche, spiegando come vanno lette le lettere e i gruppi di lettere, sperando che risulti più facile da comprendere.

La pronuncia cui mi riferisco è quella del palermitano: come in tutti i dialetti la pronuncia varia molto da città a città, ed è forse l'aspetto che differenzia maggiormente diverse varietà di un medesimo dialetto, più delle variazioni di sintassi o morfologia.
Per di più il palermitano ha una pronuncia di certi suoni decisamente diversa da tutte le altre varietà siciliane, che lo caratterizzano fortemente.

La pronuncia oltre al lessico rende il siciliano decisamente incomprensibile a gente 'di fuori'. Difatti, anche se le parole sono spesso identiche all'italiano, occorre una 'decodifica' per comprederne il significato. Un esempio lampante è la parola 'vurìedda' che risulterà oscura alla maggior parte delle persone, ma che con un'opportuna tecnica di 'crittanalisi' risulterà chiarissima.
Il siciliano presenta quindi come peculiarità: suoni traslati rispetto all'italiano, suoni propri non presenti in italiano, fenomeni combinatori e/o eufonici che contribuiscono a rendere criptiche le frasi.
Passiamo in rassegna ordinatamente questi aspetti della pronuncia.

suoni TRASLATI:

b - una b dell'italiano corrisponde solitamente a una v del siciliano, soprattutto se in posizione infravocalica. Difatti la v 'ritorna' b quando è doppia. Nota che in siciliano va considerata infravocalica anche se a inizio parola preceduta da vocale, come in 'a vutti' (la botte), dove la b italiana si trova fra due vocali. La b, laddove è presente, è sempre pronunciata doppia.
Esempi: 'il battesimo' diventa 'u vattìu', 'la barca' - 'a varca', 'il broccolo' - 'u vrùocculu'. Parole con doppia b: 'abbuccari' (traboccare), 'arrubbari' (rubare). Le parole 'bìeddu' e 'bùonu' (bello e buono) sono pronunciate sempre con la b. Alcune parole tratte dall'italiano per mantenere la 'b' iniziale vengono raddoppiate: 'la bomba' diventa 'a bumma' (pron: abbumma)
NOTA
Scrivo -bb- solo in mezzo alla parola; ad inizio parola scrivo b- per non appesantire la grafia, ma bisogna ricordarsi che è sempre doppia.
Lo stesso metodo userò per -gi-, come 'valigia', che in siciliano si scriverà quindi 'valiggia'; in posizione iniziale scriverò gi-: 'a giacca', la giacca (letto: aggiacca).

d - una d singola dell'italiano spesso diventa r in siciliano. Esempio: 'di' diventa 'ri', 'cadere' diventa 'càriri'. Non tutte le parole seguono questa regola: in generale si può dire che quelle importate di recente dall'italiano non seguono questa regola (come per altro anche le altre regole di pronuncia). Per esempio 'il dado' si dice 'u dado'. Da notare due cose: per mantenere la d italiana la si raddoppia (perché l'istinto di trasformare una d singola in r è molto forte; cfr con 'la bomba' di sopra); la parola finisce per 'o', e questa è un'altra stranezza dovuta al fatto che la parola è stata presa tale e quale dall'italiano.
NOTA
Per la d vale lo stesso discorso della b: u dado si legge 'uddado'; altrimenti scrivo 'r'.

g - la infravocalica spesso cade (solo in palermitano), lasciando solo piccole tracce. Ad esempio 'il gatto' si dice 'u attu' ('u' e 'a' non formano dittongo!), 'gettare' si dice 'ittari'. La 'g' miracolosamente riappare quando viene raddoppiata: 'vai a buttarlo!' si dice 'va ghìettalu'. Comunque la presenza della g è palpabile anche nel 'u attu' come vedremo nella sezione dedicata agli articoli.

gl - in siciliano diventa spessissimo ggh. Ad esempio 'moglie' si dice 'mugghìeri', 'aglio' si dice 'agghia'. Però a volte a una ggh siciliana non corrisponde gl in italiano, ad esempio 'vugghiri' significa 'bollire' (a dimostrazione del fatto che queste che propongo sono solo analogie, e non leggi fonetiche!).

ll - la doppia l, come molti sanno, diventa in siciliano dd (con una pronuncia un po' particolare, cfr sezione dei suoni propri). Per esempio 'bello' è 'bieddu', 'cavallo' è 'cavaddu'. A questa regola sfuggono poche parole di recente importazione: 'il pollo' è 'u pollo'. Comunque esistono parole siciliane con -ll-, spesso però non hanno riferimenti italiani (allazzari, allavancari).

mb - tende a semplificarsi in mm. Esempio: 'bomba' diventa 'bumma'.

nd - tende a semplificarsi in nn. Esempio: 'quando' diventa 'quannu'.

r - alla r di solito corrisponde una r anche in siciliano, che però ha tre diverse realizzazioni (allofoni) a seconda del contesto fonico. Da ricordare che una r siciliana può corrispondere a una d italiana. (vedi sopra).

Per quanto riguarda le vocali, si può dire che grossolanamente a 'o' ed 'e' chiusa in italiano corrispondono 'u' e 'i' siciliane, mentre a 'o' ed 'e' aperta corrispondono 'ùo' e 'ìe' in palermitano e 'o' 'e' nelle altre varianti. In realtà per una corrispondenza più affidabile si dovrebbe risalire all'origine latina delle parole (sempre che ne esista una comune) e seguire le leggi fonetiche descritte nei manauli di linguistica. Ma come approssimazione può bastare. Esempi: 'bello' si dice 'bìeddu', 'buono' si dice 'bùonu', 'cosa' si dice 'cùosa', 'perché' si dice 'pirchì', 'pera' si dice 'piru' (non badate alla 'u'!, è colpa dell'italiano).


NOTA: ricordo che queste sono solo tecniche di memorizzazione. In particolare possono tornare utili per capire una parola pronunciata in dialetto (la parola 'vurìedda' ora può essere letta come 'budella' ); non è detto che convertendo otteniate sempre parole siciliane, per i due motivi che ciò che ho elencato è solo un'approssimazione, e che il siciliano ha una buona dose di lessico proprio non direttamente riconducibile a quello italiano.


SUONI PROPRI
Il siciliano ha alcuni suoni che in italiano non esistono.

i - Questa vocale ha un suono leggermente diverso da quella italiana quando segue l'accento tonico: è leggermente più aperta, quasi a metà strada tra una 'e' e una 'i' italiana. Per esempio in 'iddu' la si pronuncia come in italiano, mentre in 'càriri' è più aperta verso la 'e'. La parola 'ri' (di) si pronuncia come in càriri.

u - Lo stesso discorso fatto per la 'i' vale per la 'u', solo che in questo caso l'apertura verso la 'o' è più lieve, quasi impercettibile (a mia disposizione non ho nessuno strumento se non il mio orecchio, che però è ben allenato...) Vedi la parola 'tuu' (tuo)

r l - quando sono seguite da una consonante occlusiva assumono un suono praticamente identico, tipico del palermitano, per cui non trovo corrispondenti in altre lingue, perciò andrebbe ascoltato. Cùolpu, àrbulu.

lt, ld - in siciliano diventano -vu-. Càvuru (caldo: cavudu>cavuru), ghiàvutu (alto), àvutru (altro).

r - quando segue una t assume un suono come la r inglese (es: 'u quatru', 'tri').

ng - questo digramma rappresenta un suono che in italiano non si trova mai a inizio parola, mentre in siciliano è possibile. Il suono è più o meno quello della n di fronte a '/k/' o '/g/' (stanco)o dell'-ing inglese. In siciliano si trova a inizio parola in vocaboli come 'ngranciari' (soffriggere), 'nguantìera' (vassoio). Inoltre compare dove in italiano si avrebbe -ng- (sangue, sangu).

s - davanti a consonante sorda (p t k f) si pronuncia a metà strada tra s e sci italiane. In tutti gli altri casi è sorda (come nell'italiano Sicilia). Es: chistu (questo). Davanti a consonante sonora (b d g v) sembra una j del francese 'jambe': sbàttiri.
Bisogna notare che il nesso italiano -str- in siciliano si pronuncia -sr-; dato che la 'r' in questo caso è sorda, la 's' si pronuncia come nel primo caso: strata (mantengo la grafia italiana per facilitare la memorizzazione e l'intelleggibilità del testo).

ùo ìe - questi sono falsi dittonghi in cui la u e la i sono accentati (Es: cùomu, bieddu). E' caratteristica palermitana: se una 'e' oppure una 'o' sono accentate e aperte (per sapere se sono aperte si può fare un paragone con l'italiano o meglio con altre varietà di siciliano) allora sono praticamente sempre 'ìe' e 'ùo'. Eccezioni: parole italiane non acclimatate ('u pollo'); variazioni dovute all'accento nella frase ('è bieddu', ma si dice 'è un beddu picciuottu', 'è un bel ragazzo'). Nel secondo caso la e di 'beddu' pur essendo portatrice dell'accento tonico della parola, in realtà si 'subordina' all'accento della frase, che cade su 'picciùotto'.
Le altre varietà di siciliano pronunciano semplicemente 'e' 'o'.


FENOMENI EUFONICI e altro
Spesso una parola viene pronunciata in modo diverso in base al contesto in cui si trova. Altre volte invece si insinuano dei suoni per avere un effetto più piacevole ed eliminare sgradevoli successioni di suoni.

- Oltre alla già accennata alternanza tra 'e-o' e 'ìe-ùo', spesso dei suoni si raddoppiano a inizio parola, a volte per via della parola che precede, altre solo per enfatizzarla. Sopra avevo fatto esempio di 'ittare' che diventa 'va ghìetta!', ripresentando così la 'g' italiana. Un altro esempio 'riri' (dire) che diventa, in una frase come 'glielo devo dire', 'ci l'aiu a dire'(pron: addiri).
Di questo fenomeno non è tanto importante l'esistenza, in quanto anche in italiano spesso alcune consonanti raddoppiano a inizio parola, quanto la trasformazione che alcuni suoni hanno per via del raddoppiamento. 'riri' diventa 'diri', in quanto la 'd' singola diventa di solito 'r' in siciliano, ma la doppia d rimane tale. All'inizio si può rimanere disorientati, ma una volta capita la regola non si hanno più problemi. 'vutti' diventa 'butti' in una frase come 'aiu tri butti' (ho tre botti).

- A volte si inseriscono dei suoni senza significato in certi sintagmi; i più comuni sono una r o una g. Per esempio: 'iu e r iddu' (io e lui); 'cuegghiè' ('chi è è', cioè: chiunque). La seconda è molto usata perché traduce l'italiano chiunque, dovunque, comunque, qualsiasi cosa (cuegghiè, unnegghiè, comegghiè, socchegghiè). La pronuncia 'cu è è' sarebbe sgradevole, e s'inserisce perciò una g: da notare che questa è la pronuncia corrente, nessuno direbbe 'cu è è' (divresamente dall'italiano dove si può dire 'sedia e armadio' oppure 'sedia ed armadio').

RIASSUNTO

Riepilogo le lettere dell'alfabeto italiano e la loro pronuncia in siciliano.

a - come in italiano
b - pronunciata sempre doppia (bb)
c - davanti a 'a - o - u' come in italiano, davanti a 'i - e', si presentano due casi: se è singola si pronuncia quasi come sci in italiano ('caciu' si legge 'casciu'), se doppia si legge come in italiano ('ghiacciu' si legge come si scrive). Si potrebbe scrivere 'casciu' anziché 'caciu', ma ci sarebbero due inconvenienti: la sci italiana fra vocali è pronunciata sempre doppia, mentre in siciliano è singola; si perderebbe la relazione tra la parola italiana e quella sicialiana (in questo caso 'caciu' richiama l'italiano 'cacio' sicuramente di più che un ipotetico 'casciu').
d - pronunciata sempre doppia. Se è singola scriviamo r.
e - vedi sopra
f - come in italiano
g - come in italiano
h - come in italiano
i - vedi sopra
l - davanti a occlusiva assume un suono particolare (vedi sopra)
m - come in italiano
n - come in italiano, a parte la combinazione ng a inizio di parola (vedi sopra)
o - vedi sopra
p - come in italiano
q - esattamente come in italiano: 'quando' 'quannu'
r - se singola tra vocali come in italiano (ma spesso se preceduta da articolo raddoppia: 'a radio' si legge 'arradio') ; davanti a occlusiva assume un suono particolare (vedi sopra); dopo consonante sorda (si solito t) come in inglese.
s - sempre sorda; davanti a t vedi sopra
t - come in italiano
u - vedi sopra
v - come in italiano (da ricordare l'alternanza con la 'b')
z - sempre sorda, come in italiano 'zio' (u ziu)

ARTICOLI DETERMINATIVI
Questa parte presenta dei problemi di esposizione, infatti non è semplice decidere se l'articolo determinativo singolare maschile sia 'u' oppure 'lu'. Di fatto si usa sempre 'u', ma ci sono alcuni indizi a sostegno che la forma originaria potrebbe essere 'lu'.
- 'l apostrofo' è l'articolo usato davanti a sostantivi che iniziano per vocale ('l'agghia', l'aglio);
- i parlanti nativi, soprattutto gli anziani che hanno poca dimestichezza con l'italiano, tendono a dire 'lu aglio' quando si sforzano di parlare in italiano.
In definitiva credo che l'articolo sia ai fini pratici 'u' (e per questo lo scrivo senza apostrofo, a differenza di alcuni testi in cui si legge: 'u cavaddu, per indicare la caduta della elle).
Al di là dei problemi di resa grafica delle parole, gli articoli sono:
- u per il maschile (u cani)
- a per i femminile (a carni)
Entrambi si trasformano in elle davanti a vocale ('l'agghia, l'amìenta'; l'aglio, la menta).
Al plurale fanno entrambi 'i', e spesso sono l'unico marcatore del numero del sostantivo (i cani, i mugghìeri).
NOTA: le parole in cui è caduta la g mantengono come articolo 'u'; ad esempio non si dice 'l'attu' ma 'u attu', come se la g fosse stata rimpiazzata da una pausa (un po' come il colpo di glottide tedesco) che mantiene separati la vocale dell'articolo e la 'a', rendendo non necessaria la modifica dell'articolo. Questa è la seconda traccia lasciata dalla g dopo la sua caduta.



ARTICOLI INDETERMINATIVI
Gli articoli indeterminativi sono rispettivamente 'un' per il maschile e 'na' per il femminile. Es: 'un cristianu', 'na cristiana' (un signore, una signora).
Al plurale si può prendere a prestito la forma del partitivo, ma non è sempre possibile: 'ho visto dei signori' si traduce 'vitti r'i cristiani', ma 'dammi dei pomodori' va tradotto usando una perifrasi ('rammi cualchi pumarùoru', oppure 'rammi n'anticchia 'i pumarùori'; qualche, un po' di pomodori).
Una regola che si può seguire è di tradurre col partitivo quando ci si riferisce a esseri animati, si usi invece una perifrasi per gli oggetti.




INTRODUZIONE
I verbi siciliani si discostano molto da quelli dell'italiano, sia perché hanno seguito una strada evolutiva dal latino in alcuni punti differente, sia perché hanno subito nel corso della storia l'influenza di altre lingue.
In generale la varietà di modi e tempi si è sfoltita (sia rispetto al latino, sia rispetto all'italiano), lasciando che le funzioni delle forme verbali perse fossero inglobate da altre oppure abbandonate del tutto.
Il siciliano ha due declinazioni: in -àri e in -iri. In realtà, come avviene per la declinazione italiana -ere, la declinazione -iri è il risultato della fusione di più declinazioni. L'italiano ha mischiato le declinazioni latine di 'monère' e 'légere', non distinguendo più la lunghezza della vocale. Il siciliano invece ha quasi eliminato la declinazione 'monere' trasformando la stragrande maggioranza dei suoi verbi in tipo 'legere' (un po' come in sardo, dove il passaggio però è stato totale e senza eccezioni). Quindi in siciliano la maggioranza dei verbi hanno -iri non accentato; esempi: gràpiri (aprire), sìerbiri (servire), tìenniri (tenere). Tuttavia si contano alcuni casi di desinenza accentata: i verbi 'avìri', 'capìri', 'mpurrìri', 'piacìri', 'scumparìri', 'sapìri', 'sculurìri', 'spirìri' e pochissimi altri. E' probabile che almeno alcuni di questi verbi siano stati introdotti di recente dall'italiano, e ciò proverebbe che la regola della desinenza in -iri non accentato non è più produttiva. Che con tutta probabilità siano dei prestiti lo denunciano i verbi 'scumparìri' che non deriva da quello siciliano 'pàriri'; 'capìri' che si oppone a 'càpiri', e forse questo ha spinto il primo verbo a non regolarizzare l'accento; 'piaciri', che dovrebbe essere derivato dal sostantivo 'piaciri' preso forse dall'italiano; infatti di questo verbo è possibile sentire anche la variante più rara e regolare 'piàciri'.
Od ogni modo anche i verbi in -ìri accentato si coniugano seguendo le regole generali dei verbi con desinenza atona.


La declinazione in -àri (sempre accentato) non presenta invece particolari problemi.

MODI e TEMPI
In siciliano esistono i seguenti modi verbali: indicativo, congiuntivo, imperativo, gerundio, participio. Manca solo il condizionale, la cui funzione viene assorbita dal congiuntivo.
L'uso dei modi è praticamente identico all'italiano, con l'unica eccezione del congiuntivo e di alcune limitazioni nell'uso di certi tempi (che non esistono).
L'indicativo può disporre dei seguenti tempi: presente, imperfetto, passato remoto, passato prossimo, trapassato prossimo.
- il presente ha un uso molto simile all'italiano. In più lo si usa spesso nelle frasi ipotetiche (come nell'italiano colloquiale) e per sopperire alla mancanza del futuro. Per dire 'se ho del pane te ne do un pezzetto' si dice tranquillamente 'siddu aiu pani tinni rugnu un pizzuddicchiu'. Per il futuro si può usare una perifrasi (similmente al sardo): avere + a + verbo all'infinito. 'Aiu a ghire ne me frati' (devo andare da mio fratello, cioè andrò da mio fratello); o più semplicemente si usa l'indicativo. Per tradurre 'quando finirò di parlare uscirò' si dice 'cuannu finisciu i parrari nìesciu'. Da notare che avere + a + verbo in realtà indica un dovere, e solo in secondo luogo un'azione futura (difatti ne esiste anche la versione al passato), e che per evitare errori è meglio usare il presente.
Le desinenze per le pesone sono per la declinazione in -àri: u - i - a - amu - ati - anu. (iu parru, tu parri, iddu parra, nuatri parramu, vuatri parrati, iddi pàrranu - parlare). Per quella in -iri: u - i - i - ìemu - iti - inu (iu sìerbu, tu sìerbi, iddu sìerbi, nuatri sirbìemu, vuatri sirbìti, iddi sìerbinu - servire).
- l'imperfetto ha le stesse funzioni dell'italiano, ma si discosta nella declinazione in due punti. La prima persona singolare esce in -a, come in italiano antico: si dice 'iu parrava' e 'iu sirbìeva' (le altre desinenze sono uguali al presente). L'altra differenza riguarda l'accento della prima persona plurale: il siciliano assomiglia in questo caso allo spagnolo, dove si dice 'nosotros hablàbamos', (noi parlavàmo): difatti si dice 'nuatri parràvamu', 'nuatri sirbìevamu', e non *parravàmu* e *sirbivàmu*.
- il passato remoto è entrato di forza nel cliché in quanto è usatissimo per formare frasi al passato. Essendo particamente nullo l'uso del passato prossimo, qualsiasi frase passata che non indichi azione continuativa (imperfetto) la si rende col passato remoto, anche se è finita da poco. Similmente all'inglese si dice: 'finivi i manciari ùora ùora', cioè 'ho appena finito di mangiare' (lett.: 'finii di mangiare ora ora').
In alcuni casi si può usare il passato prossimo. Per rispondere a una domanda come 'chi ha mangiato la torta?' si potrebbe dire 'mi l'aiu manciata iu' (me la sono mangiata io), ma il passato remoto va bene comunque (m'a manciavi iu). In generale si può dire che in quei pochi casi dove si può usare il passato prossimo sicuramente va bene anche quello remoto, e per sicurezza è meglio usare il secondo; in più credo che l'uso del passato prossimo si stia infiltrando a causa dell'influenza dell'italiano.
Le desinenze sono per la 1° declinazione: avi - asti - ò - ammu - àstivu - àru (iu manciavi, tu manciasti, iddu manciò, nuatri manciammu, vuatri manciàstivu, iddi manciaru). Per la seconda declinazione: ivi - isti - ìu - immu - ìstivu - ìeru. (iu sirbivi, tu sirbisti, iddu sirbìu, nuatri sirbimmu, vuatri sirbìstivu, iddi sirbìeru).
- del passato prossimo ho spiegato brevemente l'uso, e in realtà sotto quel punto di vista c'è poco da aggiungere. Da sottolineare una cosa: l'ausiliare è sempre avere. Quindi 'sono andato' si dice 'aiu iutu', 'sono stato' si dice 'aiu statu' (o più semplicemente: 'ivi', 'fuvi').
- il trapassato prossimo si usa come in italiano, ma in più lo si utilizza laddove in italiano avremmo un trapassato remoto (in alternativa si può usare il solo passato remoto). Ad esempio 'quando me lo chiese, già lo avevo fatto' si dice 'cuannu me l'addumannò, già l'avìeva fattu'. Inoltre 'dopo che ebbe mangiato' si può tradurre 'dùoppu c'avìeva manciatu' o (meglio) 'dùoppu ca manciò'. Ricorda che il passato remoto può sostituire solo il trapassato remoto, e non il trapassato prossimo: una frase come 'cuannu me l'addumannò, già u fici' non ha senso, proprio come non ne ha l'italiano 'quando me lo chiese già lo feci'.
Il congiuntivo esiste solo al passato. Il congiuntivo presente manca in quanto di solito non si sente la necessità di frasi troppo complicate o forbite, e al suo posto si usa semplicemente il presente indicativo. Ad esempio la frase 'penso che abbia un po' di pane' si traduce 'pìensu c'avi n'anticchia i pani'. Da ricordare che se la frase è al passato, si usa il passato remoto: 'credo che abbia mangiato' si dice 'pìensu ca manciò'.
Una caratteristica peculiare del siciliano è il doppio congiuntivo nelle frasi ipotetiche, dove assolve anche il compito del condizionale. 'Se potessi ci andrei' si traduce 'siddu putissi ci issi' (se potessi ci andassi). E così in tutti i casi. Il congiuntivo trapassato lo si usa per frasi ipotetiche dell'irrealtà: 'se avessi potuto ci sarei andato' si traduce 'siddu avissi potutu ci avissi iutu' (se avessi potuto ci fossi andato).
L'ottativo non viene quasi mai usato, preferendo delle perifrasi. 'Ah, se avesse tempo!' non si tradurrebbe '*siddu avissi tìempu!*'; al suo posto si preferisce 'un n'avi mai tìempu' (non ha mai tempo), o qualsiasi altra perifrasi atta allo scopo.
Le desinenze sono per la prima declinazione: -assi - assi - assi - àssimu - (assivu) - àssiru. (iu manciassi, tu manciassi, iddu manciassi, nuatri manciàssimu, vuatri manciassivu, iddi manciàssiru). Per la seconda declinazione: -issi - issi - issi - ìssimu - isti - ìssiru (iu sirbissi, tu sirbissi, iddu sirbissi, nuatri sirbìssimu, vuatri sirbissivu, iddi sirbìssiru).
L'imperativo ricalca quello dell'italiano, anche nell'usare l'infinito per la negazione della seconda singolare (non magiare!). L'unica differenza riguarda proprio la negazione, dove è preferibile usare il verbo dovere negato, piuttosto che il semplice 'non'. 'Non mangiare!' non si traduce '*un manciari!*, bensì 'un a' manciari!', cioè non devi mangiare! Si potrebbe obiettare che se non+infinito non si usa mai, come si può affermare che la regola è uguale all'italiano? In realtà in un preciso caso si può usare non+infinito, seguito da un'esclamazione (ma è di uso abbastanza limitato). Ad esempio 'un manciari, ah!' (non mangiare, veh!).
Per il resto le declinazioni seguono regole uguali a quelle italiane. Es: mancia!, manciamu!, manciati! (un a' manciari, un avìemu a manciari!, un aviti a manciari!). Per la seconda declinazione: sìerbi!, sirbìemu!, sirbiti! (un a' sìerbiri, un avìemu a sìerbiri, un aviti a sìerbiri!).
Il gerundio ha un uso generale simile all'italiano. Esempi: 'camminava cantando' si traduce 'camminva cantannu'; 'sta andando' si dice 'sta ìennu'. Lo si usa meno per formare frasi implicite, del tipo 'piovendo, non esco', dove sarebbe preferibile tradurre con 'vistu ca chiuvi, un nìesciu' (visto che piove non esco). E' più simile all'italiano l'uso del gerundio passato: 'avendo piovuto molto, la terra è fradicia' si può dire 'avìennu chiovutu assai, a tìerra è lintata'.
La prima declinazione esce in -annu (manciannu), la seconda in -ìennu (sirbìennu).
Il participio costa solo della forma al passato. Le declinazioni escono rispettivamente in -atu e -utu (manciatu, sirbuto). I verbi della prima declinazione sono praticamente tutti regolari, quelli della seconda seguono all'incirca questa regola: quelli che anche in italiano sono irregolari, hanno il participio passato irregolare anche in siciliano (misu, fattu, rittu: messo, fatto, detto); quelli che sono regolari della seconda e della terza declinazione italiana, che in siciliano escono in -iri, fanno al participio passato -utu (tinuto, sirbutu, vinnutu: tenuto, servito, venduto). Bisogna però notare che in molti casi verbi che in italiano hanno il participio irregolare, in siciliano sono regolari: stinnutu, tinciutu, pirdutu: steso, tinto, perso).
Il participio presente non esiste, neanche come aggettivo. Si usa quasi sempre al suo posto una perifrasi: 'un panno gocciolante' si direbbe 'un pannu ca scula'; se invece indica un'azione che si sta compiendo si può usare il gerundio: 'iava cantannu' (andava cantando).
L'infinito accompagnato da pronomi si comporta in modo diverso rispetto all'italiano. Quando il ponome è quello del riflessivo -si, in italiano il verbo perde la e finale: perdersi, mangiarsi, convincersi; in siciliano invece il verbo mantiene la -i finale: pirdìrisi, manciàrisi, cummincìrisi. Da notare che i verbi sdruccioli all'infinito, evitano di diventare bisdruccioli posponendo l'accetto e preservando quindi una migliore pronunciabilità: si dice 'pìerdiri' ma 'pirdìrisi', e non *'pìerdirisi'.
In caso si abbia un pronome oggetto e uno di termine, come in 'mangiatelo, prenditelo', l'italiano mantiene l'accento originario, il siciliano lo sposta invece sul primo pronome: 'manciatìllu', 'pigghiatìllu' :dupall:


RAGA SE AVETE UN PO DI TEMPO LEGGETELO E ASSOLUTAMENTE BELLO IL DIALETTO PALERMITANO! CMQ ADDIVIRTITIVI E LIGGITI!! (traduzione : divertitevi e legette) xD
:paf:
 
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wendimoore
view post Posted on 25/7/2013, 12:36




Io da palermitana direi che il nostro dialetto si differenzia chiossai dagli altri dialetti ra siscilia... ahahah
va bon, ni viriamu
 
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2 replies since 23/8/2009, 17:42   1299 views
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